Quel che non sai: un libro di Luciana Coèn

soleLuciana Coèn è infermiera, nella vita ha sperimentato la sofferenza e la malattia nella sua professione, ma anche su sè stessa. Il linguaggio che usa per raccontare le sue esperienze è diretto, semplice e intenso. Nel 2008 ha scritto “mani sul mio corpo, diario di una malata di cancro” una lucida narrazione del cambiamento che la malattia provoca sulla propria prospettiva esistenziale. Emerge anche la poca comprensione e umanità dimostrata da chi, nel sistema sanitario, doveva prendersi cura di lei e della sua salute.

Figlia e madre insieme nella sofferenza psichica”

Nel febbraio 2014 è uscito “Quel che non sai, figlia e madre insieme nella sofferenza psichica”. Il tema centrale del libro è le scelte del fine vita, un dilemma che da anni suscita discussioni e pareri discordi. La sua esperienza però costituisce un caso nel caso, infatti ci racconta dell’impossibilità di dare risposta alle volontà di sua madre nella condizione di malattia mentale. Read more

All’onorata consorte Elisabetta Corsini

Luoghi per fermarsi a riflettere

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Sogni – Vittorio Matteo Corcos 1896

La storia di Elisabetta Corsini e della sua famiglia l’ho trovata nel chiostro della chiesa di San Lorenzo.

Capita d’imbattersi in luoghi che racchiudono un’atmosfera particolare, al riparo dal frettoloso e impersonale turismo globale.  A Firenze ce ne sono molti e sono quelli che le restituiscono il suo fascino. Può essere un porticato o una loggia, l’angolo di un vicolo o un muro a secco, un tabernacolo, un giardino, un interno di chiesa, quando lo incontri hai la sensazione che il tempo scorra diversamente, rappreso nell’aria, intrappolato nella materia.
Allora non puoi far altro che fermarti e lasciarti conquistare da questa esperienza.

Il chiostro di San Lorenzo a Firenze.

Un giorno sono entrato nel chiostro di San Lorenzo sulla sinistra della basilica. Read more

Riflessioni dopo la lettura di "mani sul corpo", di Luciana Coèn

Leggere le biografie ed i diari di malattia è sempre una profonda esperienza umana e un ottimo spunto di riflessione.

di Patrizia Brugnoli
Lo specchio dal quale l’Altro come noi ci restituisce una immagine preoccupante della nostra presenza nel contesto di cura, ci pone l’obbligo di ripensare al nostro modo di comunicare, al nostro operato, ai nostri gesti quotidiani. In questo senso, Luciana Coèn ha generosamente messo a disposizione di chiunque voglia leggere il suo libro una vasta gamma di rilievi, che a loro volta conducono alla rivisitazione di ciò che è scontato, di ciò che ci viene ormai automatico e che non mettiamo più in discussione.
Personalmente, sono stata condotta molto lontano, alle radici della motivazione che mi ha spinto ad essere un operatore della salute. Qui mi sono dovuta confrontare con l’evidenza che ancora molti pregiudizi ostacolano il flusso della mia genuina partecipazione alle vicende delle persone di cui mi prendo cura. Ho dovuto ammettere con me stessa che sono ancora prigioniera di vecchie concezioni che pensavo abbandonate.
Imprinting cartesiano
Nascere, crescere in un certo ambiente culturale plasma, o contribuisce a plasmare, il nostro pensiero. Ciò è evidente per quei concetti che ci vengono insegnati da ragazzi e che crescendo scegliamo di accettare o di ricusare. E’ molto meno evidente quando i concetti non vengono enunciati come tali, ma si trasformano in una forma mentale, in un modo di funzionare della nostra psiche, molto spesso in modo inconscio. In questo modo, un concetto etico rifiutato razionalmente può trasformarsi in un comportamento inconscio e farci prendere posizioni diverse da quelle che avremmo mai pensato, se solo ci fosse stato concesso di avere il tempo per rifletterci su.
Come operatore della salute mi accorgo di cadere spesso in trappole che antichi e apparentemente superati presupposti hanno sistemato sul mio percorso personale e professionale. La più resistente, infida e pericolosa è quella del dualismo cartesiano, della separazione tra fisicità e spiritualità, tra corpo e mente.
Ci cado tutte le volte quando credo che oggettivare l’esperienza corporea serva a spiegarla. Ci cado ad esempio quando penso che enucleare il dolore dalla persona che lo accusa serva a comprenderlo. Ne sono di nuovo vittima tutte le volte che identifico l’utilizzo del corpo umano da parte della società del media, con il vissuto dell’uomo contemporaneo, con i suoi bisogni, con la sua espressione. E’ cosi facile lasciarsi trasportare da invettive contro il presunto decadentismo attuale prendendo come esempio l’esposizione dei corpi, la ricerca di una forma fisica perfetta, come colpevole dell’abbandono sociale in cui versano i corpi sofferenti delle persone malate. Tuttavia, proprio mentre pensiamo di aver sferzato i costumi della società consumistica, non facciamo altro che oggettivare l’esperienza corporea. Pensando di contrapporre un connotato etico negativo attribuito al corpo esibito di un uomo griffato, ed uno positivo attribuito al corpo di una persona disabile o a fine vita, prima di ogni altra cosa abbiamo pericolosamente separato l’esperienza della persona, il suo sentire, ma ancora di più il suo Essere dal suo corpo, rendendolo così contrapposto ad un qualcos’altro. Siamo caduti nella trappola.
Penso davvero di toccare un corpo quando pratico un massaggio? O, piuttosto, sto toccando una persona? Sono davvero sicura che l’esibizione di corpi abbronzati o vestiti alla moda corrisponda ad una mancanza di partecipazione alle sofferenze altrui di quelle persone? Preferisco quindi parlare di esperienze e di persone piuttosto che di malattie e corpi. Fino alla prossima trappola…
Insidie del corpo oggetto
L’oggettivazione del corpo, vale a dire la scissione del corpo dall’unità/identità personale, può essere una operazione filosofica, può rappresentare il grimaldello per controllare dei comportamenti umani, ma soprattutto è una caratteristica della malattia psichica. Senza arrivare a tanto, vorrei fermarmi a considerare le possibili evenienze collaterali dell’operazione di scissione nel contesto di cura .
Quando effettuo una scissione, affermando ad esempio che quotidianamente “io incontro corpi sofferenti” sostengo che il corpo non è il soggetto della sofferenza, sostengo indirettamente che il soggetto ha corpo che soffre. A ragion di logica, ciò implica che, come ogni altro avere, possa essergli espropriato. Parlare di corpo o dei corpi in un discorso sull’assistenza e sui gesti di cura, come se quei corpi fossero una proprietà materiale di quelle persone, significa abbracciare una particolare etica, significa considerare il corpo un qualcosa di separato dal soggetto mentale. Significa cadere di nuovo nella trappola.
La stessa cosa accade quando oggettiviamo la malattia. Possiamo asserire di conoscere malattie che vivano senza la persona malata? Esisterebbe un cancro senza la persona che lo manifesta? Certo, staccare questa Entità dal sé può essere funzionale: significa scindere la parte malata e considerarla altro da sé, significa cercare di controllarne l’evoluzione, il comportamento. Ed ecco la ragione delle metafore belliche tanto odiate da Luciana Coèn: se separo quella parte, la rendo non mia. Ha quindi ragione di esistere una lotta al tumore, una vittoria sul tumore e così via. Ma quando non è funzionale, la scissione ci rende solamente ciechi, ci fa dire che nella lista operatoria ci sono.”due pancreas, uno stomaco e un tenue”…, ci rende incapaci di vedere la persona, di ascoltarla.
Prendiamo un altro esempio: il “dolore negli anziani”. Suona diverso da “il dolore del malato anziano”. Nel primo enunciato il dolore sembra un soggetto asettico al di sopra delle persone anziane che lo subiscono. Nel secondo c’è una maggiore partecipazione emotiva, la stessa partecipazione che ci ha spinto a verificare che rispetto a ciò che accade nell’anziano senziente, al malato anziano demente, a parità di frattura ossea, viene somministrata una dose minore di analgesici (Rs. Morrison(2000) Survival in end-stage demetia following acute illness. JAMA: http://jama.ama-assn.org/cgi/content/full/284/1/47,).
In particolar modo, parlando di gesto[1], non posso effettuare alcuna scissione. Il gesto non è solo movimento, né solo azione prassica, ma ha un connotato squisitamente relazionale. Nel gesto è insito chi lo esprime, ma anche chi lo riceve. O no? Dipende dall’etica dell’operatore. Se la mia intenzione è di comunicare qualcosa all’interno di un dialogo, dovrò cercare un canale e un codice adeguati, dovrò curarmi del contesto e delle implicazioni che il mio gesto comporta. Ma se intendo comunicare solo un ordine, una sentenza inappellabile, allora lo potrò compiere senza curarmi di essere compreso, di avere l’assenso dell’altro. Sarà comunque sempre un gesto, ma cambierà la posizione dalla quale io mi esprimo, sarà diversa l’etica che sostiene il mio agire (G.Palo (1999), La comunicazione. www.palogianangelo.it).
Una riflessione etica è quindi quello che sostiene il nostro gesto, il movimento della nostra mano in quella che viene definita la nostra “intenzione”. Ecco quindi che l’atto dell’assistere nel contesto di cura viene rivestito dal pensiero, diviene pensiero, nell’unità bio-psico-sociale dell’operare e anche della persona malata a cui è diretto e dal quale viene ispirato.
Il gesto di cura è al centro di un approfondimento teoretico da molti anni da parte degli infermieri. Angela Avis (Avis A. Touch, Massage & Nursing. http://www.positivehealth.com/article-view.php?articleid=2325) ne fornisce una attenta ed utile disamina. Ma sempre nuove argomentazioni e riflessioni vengono portate a questo interessante argomento del pensiero. Ritengo fondamentale che gli operatori possano condividerle. Specialmente là dove il pensiero si concretizza in una evoluzione della nostra maturazione professionale, là dove incontriamo le persone di cui ci prendiamo cura.
[1] Gèsto (Dizionario della Lingua Italiana De Mauro, 2007)
s.m.
1 movimento, spec. del capo, della mano o del braccio, che accompagna la parola o con cui si esprime un pensiero, un desiderio e sim.: un g. di rifiuto, di rabbia, un g. eloquente, comunicare, esprimersi a gesti